Il significato dei briganti
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 103, p. 3
Data: 1 maggio 1955
pag. 3
Rara ma lieta notizia: uno scrittore italiano vivente non s'è vergognato di comporre, in pura e viva prosa italiana, la vita di un famoso brigante. L'amico Piero Bargellini si fece conoscere nel 1932 con una saporita e briosa biografia di Fra Diavolo ma ben presto abbandonò i briganti per fare ritratti di santi, di poeti e di pittori che gli procacciarono meritata reputazione. Ma ora, proprio quest'anno, ha sentito il richiamo della foresta e la nostalgia delle tane brigantesche e perciò ha scritto di vena e di getto una felicissima vita di Domenico Tiburzi, di colui che fu per più di vent'anni il re della Maremma e fu ucciso dai carabinieri in una notte di ottobre di quel fatale anno 1896 che vide la sconfitta di Adua e le nozze del futuro Vittorio Emanuele terzo.
In questo libro Piero Bargellini ha saputo far rivivere, con sobria poesia, la bellezza della vecchia Maremma selvaggia e selvosa, la vita oscura e dura delle sue genti e soprattutto la avventura dolorosa e pericolosa, solinga e raminga dello sciagurato protagonista e dei suoi seguaci.
A quelli schifiltosi puritanelli che si meravigliassero di vedere un biografo di santi incanagliarsi una seconda volta tra la plebe ignobile dei masnadieri, ricorderò che i briganti hanno una grande parte nella letteratura romana e in quella italiana come, del resto, in tutte le letterature.
Del favoloso brigante Caco scrissero nientemeno che Virgilio e Tito Livio; nella Metamorfosi di Apuleio si leggono bellissime scene della vita e delle gesta dei ladroni di strada.
Per il Medioevo basterà dire che il più celebre bandito del Trecento, Ghino di Tacco, fu rammentato nel Purgatorio di Dante e fu ben figurato da Boccaccio in una dalle più argute novelle del Decamerone. Per i tempi moderni basti citare Pietro Colletta che nella Storia del Reame di Napoli dedicò molte delle sue pagine più belle ai briganti della reazione antifrancese e Francesco Domenico Guerrazzi che nel 1864 pubblicò un romanzo storico Paolo Pelliccioni dove sono descritte le ferocissime imprese dei briganti italiani del tempo di Sisto V.
Negli anni più vicini a noi incontriamo due grossi nomi: uno dei primi saggi storici che Benedetto Croce pubblicò in volume (Napoli, Pieno, 1892) era una vita del famigerato brigante Angiolillo e tutti sanno a memoria i versi con i quali Giovanni Pascoli creò la figura e la fama di Stefano Palloni, « Il Passator cortese, re della strada, re della foresta ».
Ma il libro di Piero Bargellini su Domenico Tiburzi non è soltanto un bel modello di prosa narrativa ariosamente mossa bensì potrebbe insegnare qualcosa agli psicologi, agli storici e perfino ai politici. A me, per esempio, ha confermato un'idea che nel volume non c'è ma che s'era affacciata più volte alla mia mente.
Il brigantaggio non è, come i più credono, delinquenza pura e comune e neanche quel truculento intruglio di ribellione generosa e di tragicommedia pittoresca che sedusse la fantasia di certi romantici. E' ormai chiaro che il brigantaggio è un derivato e un sottoprodotto della politica, cioè il tentativo di sostituire il governo legale, in una parte del paese, con un governo illegale che però si sforza di imitare quello vero. In certe regioni povere e selvatiche, dove l'autorità centrale era troppo fiacca o troppo vessatoria, il brigante cercava di fondare un governo suo proprio e apprestava gli organi fondamentali di ogni stato: l'esercito, la polizia, la giustizia e il fisco. Le forze armate si riducono al capo ed ai suoi compagni, i quali fanno anche le parti di giudici e di giustizieri; la polizia è formata da quella turba di confidenti, di complici, di favoreggiatori che è facile racimolare tra la gente misera e angariata; infine il fisco consiste in un sistema di tributi imposti ai proprietari ed ai benestanti che desiderano di essere protetti o, per lo meno, di non essere molestati dai re della foresta. Qualche volta il brigante si presenta con una specie di programma sociale, come fu di Tiburzi, il quale fece sapere ai maremmani che il suo ideale era di togliere a chi aveva troppo per dare a chi non aveva nulla. Anch'egli, con quell'abbozzo di governo che s'è detto e con quella promessa — che poi non fu mantenuta — riuscì ad essere per molti anni il vero re della Maremma.
Il governo effettivo della nazione combatte dunque i briganti come suoi rivali. imitatori e scimmiottatoci parche ogni stato legittimo vuole avere, e giustamente, il monopolio esclusivo del diritto di condannare e di tassare i suoi cittadini, mentre i briganti gli fanno un'illecita concorrenza. Lo stato perseguita i banditi, non solo parche assassini ma soprattutto perchè sono i suoi nocivi plagiari.
Il brigantaggio, insomma, è il succedaneo — sporadico, locale ed effimero — dei governi che non sanno ben governare.
◄ Indice 1955
◄ Corriere della Sera
◄ Cronologia